Potevo esimermi dal commentare un argomento di grande interesse (per me), che sta tenendo banco in questi giorni su tutti i giornali e telegiornali? No, naturalmente. E allora eccomi qui, a dire la mia in questa vicenda che può essere al contempo giudicata molto complessa ed estremamente semplice. Complessa perché gli interlocutori sono di altissimo livello, semplice perché è un argomento che riguarda tutti, e su cui ognuno può, deve farsi un’opinione.
Intanto, la cronaca: un paio di settimane fa è comparsa una lettera firmata da seicento docenti, accademici e studiosi che lamentavano l’incapacità degli studenti italiani, giunti all’Università, di esprimersi correttamente in italiano, con carenze linguistiche che risalirebbero addirittura alla scuola elementare, incapaci di leggere e comprendere un semplice testo (consiglio la lettura della lettera completa, su gruppodifirenze.blogspot.it) e quindi, a maggior ragione, di studiare e comprendere i testi d’esame ma anche di capire ciò che in un esame viene loro chiesto. I firmatari avanzano alcune proposte per arginare o, almeno, ridurre il problema, rivolgendosi a chi qualcosa può fare (prima di tutto chi si occupa della pubblica istruzione).
A questa ha fatto seguito una risposta, firmata da altri importanti nomi della cultura italiana, in prevalenza linguisti, che hanno obiettato agli argomenti dei Seicento, affermando invece che la lingua è in costante evoluzione, e che il parlato segue questi cambiamenti in modo più veloce dello scritto, quindi non si può parlare propriamente di errori, ma di fluidità della lingua (potete leggere la risposta qui).
Una bella intervista a Lucio Russo, tra le altre cose uno dei firmatari della lettera, si conclude con questa riflessione: “E’ vero che la lingua evolve ma non è giusto arrendersi alle sgrammaticature, rinunciare al congiuntivo, come ha detto di recente la Crusca. Forse sbaglio, ma io continuo a pensare che la lingua italiana debba più a Dante che al suo fruttivendolo”; sono d’accordo, senza dubbio.
La mia esperienza si basa soprattutto sul mio lavoro con ragazzi delle scuole medie e superiori, anche se, naturalmente, sono stata studentessa universitaria ed ho avuto a che fare con compagni che non erano in grado di esprimere un concetto senza mandare a memoria il paragrafo che lo conteneva. Il livello di alcuni studenti è, se possibile, ancora più basso, poiché non cercano nemmeno di imbrogliare; semplicemente a loro non interessa.
Sto drammatizzando? Forse, ma temo di no.
Non do la colpa ai telefonini, ai social, ad internet; al contrario, il linguaggio di questi media è giustamente diverso da quello dell’espressione orale, e, ancora di più, di quella scritta. Le espressioni gergali sono parte fondamentale del linguaggio. Il problema è che bisognerebbe saper usare diversi registri, e sapere quando usarli. Credo che questa sia la carenza maggiore: spesso i ragazzi non capiscono che si devono rivolgere in modo diverso al professore e all’amico, al genitore e al commesso del negozio; ma soprattutto, le rare (va bene, forse un po’ catastrofista, lo ammetto) volte in cui sanno di dover distinguere, non sanno come farlo. La responsabilità di questa situazione deve essere condivisa: io sono molto critica nei confronti di giornali e televisione, ma su un piano del tutto personale: diventare un personaggio televisivo capace di attrarre un vasto pubblico senza conoscere la differenza tra il “mi” usato come complemento oggetto o come complemento di termine (è davvero una delle cose che più mi tormenta) francamente mi sembra un peccato capitale, e questo perché da un lato ciò fa passare l’idea che non serva avere un vocabolario (almeno) corretto per avere successo – ammesso che sia sufficiente avere uno spazio in televisione per poter dire di avere successo-, dall’altro perché i ragazzi, se non vogliamo dire che prendano questo linguaggio come esempio, sicuramente si abituano all’errore, e non lo riconoscono nemmeno come tale quando, sospirando, glielo si fa (faccio) notare. In quei momenti mi sento sconfitta. Riconosco però che le parti in causa sono molte, a partire da scuola e famiglie.
La lingua si evolve, sì, certo; ma questo non deve significare infarcire parlato e scritto di errori; delle regole ci sono, e, credo, dovrebbero essere rispettate. Altrimenti sarebbe anarchia.
Non entro per ora nel merito dell’uso politico della lingua, tema interessante che ha avuto grande rilievo anche per l’interesse che personaggi del calibro di Gramsci e De Mauro gli hanno rivolto, limitandomi a constatare, tristemente, che oggi non si tratta più, certamente, di controllo delle masse povere ed ignoranti, ma di ignoranza dilagante, anche per pigrizia della scuola e di chi, con essa, dovrebbe combatterla.